don Filiberto Rossi
Villa Latina, 27/03/1925 | + Roma, 19/04/2024
Annuncio
La comunità salesiana di Roma – Pio XI e la Circoscrizione Salesiana “Sacro Cuore” – Italia Centrale annunciano che
È ENTRATO NELLA VITA PIENA
FILIBERTO ROSSI salesiano presbitero
80 anni di professione religiosa 70 di ordinazione presbiterale morto il 19 aprile 2024 a 99 anni d’età
La liturgia delle esequie sarà celebrata lunedì 22 aprile alle ore 15,00 nella Basilica Maria Ausiliatrice a Roma
I resti mortali attenderanno la resurrezione nel cimitero di Frascati.
Biografia
Filiberto Rossi nasce in provincia di Frosinone a Villa Latina, nel cuore della Ciociaria, il 27 marzo 1925 da papà Serafino, artigiano, e mamma Antonia Volante, casalinga. Ha due fratelli e una sorella. Battezzato e cresimato della sua parrocchia della SS.ma Annunziata entra in aspirantato a Gaeta nel 1939 dove passa gli anni della guerra. A 18 anni fa domanda di entrare in Noviziato «avendo abbastanza compreso, spero illuminato dallo Spirito Santo, la mia vocazione con l’intenzione di dedicare tutta la mia vita alla salvezza delle anime, soprattutto della gioventù, in qualsiasi nazione». Aveva dato disponibilità a partire per le missioni e i nostri archivi conservano uno scritto di papà Serafino nel quale «dichiara di lasciare piena libertà al figlio di partire per le Missioni, quando e dove verrà destinato dai Superiori». Parte quindi per il Noviziato a Novi Ligure 1943/44 presso l’Istituto missionario ed emette la sua prima professione religiosa nella Congregazione Salesiana a Borgo San Martino il 16 agosto 1944.
I confratelli che ne curano la formazione lo descrivono sempre come “molto buono, docile, sacrificato, di ottimo spirito religioso e aperto”, insieme alla sottolineatura di una salute malferma, che evidentemente non gli ha impedito di avere una vita lunga. Completa i suoi studi filosofici fra le case di Foglizzo e di Roma San Callisto (dove consegue la maturità classica) ed emette la professione perpetua a Frascati il 29 luglio 1950 al termine di quattro anni di tirocinio. Si sente chiamato al ministero presbiterale, per cui viene trasferito prima a Monte Ortone e poi a Messina per gli studi teologici fino al 1954, dove viene ordinato diacono il 1 gennaio e presbitero il 29 giugno 1954. Com’era tipico di quegli anni, emerge dagli scritti di don Filiberto la tensione verso la “perfezione dello stato ecclesiastico”, segno di un desiderio grande di «santificare l’anima mia e quelle che l’obbedienza mi assegna», di conformazione alla vita religiosa e a Cristo buon pastore, in ognuna delle tappe formative.
Appena ordinato prete viene nuovamente inviato a Frascati Villa Sora come insegnante e consigliere (diremmo oggi, responsabile della disciplina), dove rimane fino al 1961, quando l’obbedienza lo invia a Roma Sacro Cuore, dove per trent’anni è insegnante di Latino e Greco al Liceo, oltre che alternativamente, vicepreside, consigliere e catechista. Un’intera vita dedicata all’insegnamento, quella di don Filiberto, talmente connessa all’insegnamento che nel 1990 fu trasferito, insieme a tutto il Liceo, dal Sacro Cuore a Roma Pio XI.
Nella nuova sede don Filiberto continua il suo insegnamento appassionato fino al 2004 (a ben 79 anni d’età!) e il suo servizio come vicepreside. L’obbedienza lo lascia al Pio anche al termine dell’insegnamento altri 20 anni, in mezzo ai suoi ragazzi, ai suoi libri e ai suoi dizionari fino al giorno della sua morte. Il Signore Risorto lo ha accolto nel suo abbraccio presso l’ospedale Vannini nella serata del 19 aprile 2024.
Omelia
di don Stefano Aspettati
La prima lettura di oggi ci mostra che i discepoli dovettero compiere un lungo cammino, dopo la Pasqua, per rimanere fedeli alle proprie tradizioni religiose e, allo stesso tempo, aprire gli orizzonti del cuore e della mente alla grande trasformazione operata da Cristo dentro la storia umana. Il libro degli Atti documenta come, per gli apostoli non fu per nulla scontato arrivare a comprendere ed essere disposti ad accettare l’universalità del vangelo ormai assicurata dal dono dello Spirito Santo effuso in ogni cuore: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!» (At 11,18). Dopo essersi seduto a mensa con alcuni pagani a cui era giunto l’annuncio pasquale, Pietro sembra quasi volersi giustificare davanti a quei «fedeli circoncisi» (cristiani di origine giudaica) che «lo rimproveravano» per aver mangiato con troppa libertà i cibi considerati impuri secondo le prescrizioni giudaiche. La risposta dell’apostolo assicura che non è stata una decisione arbitraria, ma profondamente e ripetutamente ispirata dall’alto. Anzi, che è stata una vera e propria chiamata apostolica a convincerlo di poter e dover andare a sedere alla mensa dei pagani: «Lo Spirito mi disse di andare con loro senza esitare» (11,12).
Don Filiberto, in una vita spesa per l’insegnamento di materie cosiddette “profane” con un grandissimo livello di competenza – come ci ricorda don Varese – ha incarnato proprio questa capacità di rendere ciò che è profano una possibilità di dialogo e di incontro con Qualcuno di più grande. Così lo ricorda don Gian Luigi Pussino, che è stato suo direttore e ispettore “Le discipline da lui insegnate, quella lingua latina e greca definite lingue morte, potrebbero far penare a qualcosa di archeologico: nulla di questo! Perché egli sapeva con vivacità aggiornare il contesto oppure condire con qualche notizia di attualità ora un proverbio latino ora un vocabolo che pur contemporaneo rimandava a espressioni di altra epoca. Perché Don Filiberto ha sempre accompagnato le sue giornate e i suoi dialoghi con notizie di attualità, delle quali talvolta si vantava di conoscerle prima dei suoi interlocutori: la giornata oltre che dai dizionari con la lingua latina e greca era segnata anche dal giornale quotidiano fino agli ultimi giorni della sua esistenza”. E ancora alcuni exallievi, ad esempio Alberto: “i suoi insegnamenti e si, diciamolo, anche le sue correzioni me li sono portati per tutta la vita, mi hanno dato un'impronta, un metodo e quella che consideravo da adolescente severità mi ha aiutato nella vita. Nei miei studi liceali e in giurisprudenza e tuttora nel lavoro locuzioni o citazioni in lingua latina che utilizzo mi ricordano le fatiche per apprendere la grammatica con le relative eccezioni e che comunque come ci diceva sempre, ma non capivamo in quel periodo, ci avrebbero aperto la mente e avremmo potuto affrontare qualsiasi tipo di studio. E così ora siamo adulti, genitori e porteremo questo bagaglio per la vita”. Oggi, in un mondo e in una cultura che tendono a perdere i valori di riferimento cristiani e chiedono un dialogo fruttuoso con essi perché il Vangelo possa fecondarli nuovamente, si sente il bisogno di persone così.
Tornando alle letture l’incremento di vita di cui furono testimoni e protagonisti gli apostoli è frutto della dinamica della Pasqua, capace di allargare lo sguardo sulla realtà fino a (ri)comprendere le cose, le persone e le situazioni non a partire da quello che possono dare, ma da quello che consentono di offrire, affinché tutta la vita e la vita di tutti sia più libera e vera. È stata proprio questa la coscienza con cui, nella sua Pasqua, il Signore Gesù ha potuto varcare le porte degli inferi in cui la nostra umanità è tenuta prigioniera a causa del peccato. Nel vangelo l’evangelista Giovanni fa ricorso alla metafora della porta per illustrare questo ampliamento di confini verso cui la Pasqua di Cristo ci conduce: «Io sono la porta delle pecore» (Gv 10,7).
Ma colpisce in maniera speciale il suo essere sempre salesiano in mezzo ai ragazzi. Lo affermava lui stesso e lo affermano i tanti anni vissuti in mezzo a loro. Per il Signore Gesù buon pastore, noi non siamo mai pecore anonime o indistinte, ma creature amate e conosciute personalmente, chiamate «ciascuna per nome». Questa voce, così fedele e inclusiva, è in grado di infondere nella nostra umanità la fiamma del desiderio più grande: quello che ci spinge a uscire da noi stessi fino a non appartenerci più. Quando la vita cresce e si dilata, non c'è tempo da perdere, né nulla da temere. Bisogna rimettersi in cammino con gioia e speranza, fiduciosi nella promessa del Signore. Senza esitare: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Dice un’altra ex allieva oggi docente a sua volta: “ha creduto in ognuno dei suoi studenti, nonostante la sua mitica matita fosse consumata più dal lato del blu che del rosso.Osservava, rideva, condivideva sempre gli aneddoti sugli studenti delle generazioni passate e si arrabbiava… tanto. L’ho conosciuto quasi alla fine della sua storia di insegnante ma mi ha sempre colpito come sapesse arrabbiarsi, bastonarti didatticamente e poi… chiederti scusa, dirti “hai preso 3, ma stai migliorando”, perché ci sarebbe stato un 4 o 5 e, se proprio te lo meritavi, un 6! Penso che nessuno di noi si sia mai offeso per una sua sfuriata, una sua alzata di voce, una sua inversione di interrogazioni tra latino e greco. Sotto il timore che incuteva c’era tutto il suo essere salesiano: i recuperi di sabato pomeriggio, il ricordarsi i nomi di tutti e, con l’avanzare dell’età, confonderli un po’. Gioiva (e sotto sotto un po’ si vantava) dei traguardi raggiunti dai suoi studenti ormai grandi, ma non perdeva occasione per ricordare anche gli ostacoli incontrati, ridendone”.
Negli ultimi anni la sua vita si è svolta nella cappellania e nel vivere serenamente in comunità. Era una vita sobria la sua, come possono documentare i confratelli che con lui hanno vissuto. Era l’animatore della comunità. Le sue poesie, le sue suonate in occasioni di compleanni e ricorrenze rimangono nella storia della comunità per la passione con cui le proponeva, sfidando ogni volta l’ironia che da sempre ci contraddistingue e che è sempre segno di affetto. Spesso diventava l’anima della comunità senza volerlo, per il suo desiderio di parlare sempre, vuoi di attualità vuoi della sua amata Lazio e per il tono alto di voce con cui si esprimeva a causa della sordità, che faceva risaltare anche le espressioni più colorite. Era diventato il decano della Ispettoria e all’inizio non voleva che si dicesse, ma non aveva perso l’acutezza del giudizio. Nel primo colloquio mi disse il programma che avrei dovuto mettere in atto: “Credo si debba fare un progetto condiviso su 2-3 punti: vocazioni perché non ne vengono! – formazione dei laici – territorio”. Che lucidità!
Infine, l’amore per la Madonna. Un particolare dice questo amore. Quando si trasferì dal Sacro Cuore al Pio XI lasciò solo una piccola statua dell’Immacolata che aveva in camera, facendone dono a don Giorgio Rossi, che così ricorda quel momento: «quando ormai stava per lasciar libera la camera e stava facendo le scatole, me ne fece dono (su mia richiesta), affermando che l’avrebbe lasciata al suo posto sopra l’armadio a mia protezione, giorno e notte, come aveva fatto con lui». Quella protezione che continuiamo a invocare da Maria da oggi la chiediamo anche a te caro don Filiberto.