All’indomani dell’insediamento di don Roberto Colameo come nuovo Superiore dei Salesiani dell’Italia Centrale lo abbiamo intervistato a tutto campo.
- Ciao, don Roberto. Presentati, raccontaci di te…
Sono nato a Roma nel 1964 e sono salesiano da quarant’anni, perché feci la mia prima professione nel 1984. Sono sacerdote da 32 anni, perché sono stato ordinato nel 1992 nella Basilica del Don Bosco a Roma, dove ho vissuto anche l’insediamento come Superiore. La mia è una famiglia molto semplice e povera, come ho raccontato durante l’Assemblea: i miei si sono conosciuti in una zona di Roma, forse oggi abbastanza oggi sconosciuta, il fosso di Sant’Agnese (fra la Salaria e la Nomentana, piazza Annibaliano), dove nell’immediato dopoguerra convergevano emigrati che da diverse parti d’Italia cercavano nella capitale lavoro e vita migliore. Mia mamma veniva da una frazione di Ascoli Piceno, mio papà dall’Abruzzo in provincia di Chieti, dove si fa la ventricina, un famoso salame piccante. Quando avevo due anni papà è scomparso e quindi mia mamma dovette riprendere a lavorare e sia mio fratello che io iniziammo l’esperienza del collegio: questo fu l’incontro con Don Bosco. Andammo prima dalle Figlie di Maria Ausiliatrice e poi dai Salesiani. Terminata la maturità sono entrato in Noviziato.
- Ti posso chiedere di raccontarci un’esperienza che porti in cuore della tua vita salesiana?
Sono sicuramente tante: dopo aver avuto compiti di animazione e governo a livello ispettoriale, finalmente mi mandarono come parroco prima a Latina, poi a Santa Maria della Speranza, a Firenze, come direttore e infine, dome direttore e parroco, a Roma Don Bosco. Diciamo quindi che questo è l’aspetto pastorale con cui ho avuto più a che fare: la vita delle parrocchie e gli oratori. È chiaro che quando noi parliamo di parrocchia c’è sempre accanto un oratorio: un’esperienza bella, di contatto con la gente, di contatto con i ragazzi, con i giovani, con la vita concreta.
- Essere Superiore della Circoscrizione Salesiana dell’Italia Centrale vuol dire guidare il cammino di una grande famiglia, sdb, laici, giovani. Quale ti sembra essere il cuore di questa grande comunità ispettoriale?
Secondo me la più grande ricchezza è la comunità educativa pastorale. È questo il cuore di tutto, il cuore pulsante, che permette a salesiani e laici di camminare insieme. Mai gli uni senza gli altri, perché altrimenti arriva un infarto. Ecco il popolo Santo di Dio, tutti insieme: laici, consacrati, giovani. Questa è la bella esperienza di Chiesa, che siamo chiamati a vivere. E quando dico di Chiesa intendo il dialogo con le parrocchie vicine, con i vescovi diocesani, con le istituzioni cittadine, le istituzioni militari, insomma, far sì che la CEP non sia una monade, ma pienamente inserita in un territorio.
- Le nostre case sono abitate da oltre 15.000 giovani, dalle scuole agli oratori, dalla catechesi alla formazione professionale, passando per le opere a contatto con il disagio e le residenze universitarie, fino alle attività estive… Se potessi avvicinarli uno ad uno, cosa diresti loro all’inizio di questo nuovo anno?
Oggi chiaramente la nostra missione si allarga a una realtà molto grande. Le nostre case sono abitate da oltre 15.000 giovani. Mi vengono in mente le scuole e i centri di formazione professionale… La scuola e i cfp sono ambienti educativi che noi non dobbiamo assolutamente abbandonare, perché i ragazzi vivono con noi la gran parte del loro tempo: 200 giorni l’anno, più di quanto forse vivono in famiglia. È un ambiente educativo che dobbiamo assolutamente tutelare a tutti i costi. Quanto bene facciamo nelle scuole! Non mi importa sapere se vengono coloro che hanno più disponibilità di altri: sono bene quanto bene facciamo anche per i più poveri anche nelle scuole! Si fa tanta carità!
Non dobbiamo perdere lo specifico di ogni ambiente educativo pastorale, degli oratori, delle parrocchie, delle opere per il disagio, delle residenze universitari, così come ci ha detto il Rettor Maggiore: siamo ben posizionati e non dobbiamo perdere nessun ambiente.
Mi vien da pensare ai cinquanta giovani che stabilmente vivono ad esempio dentro la nostra casa di Roma Don Bosco nella residenza università. È bello pensare, come dicevo incontrando i genitori, che vostro figlio passa da una famiglia a un’altra famiglia. È un’idea che dovrebbe essere di ogni realtà.
- Si parla tanto di crisi della vita consacrata. È reale? Quale a tuo giudizio la priorità per continuare a ravvivarla?
È evidente che la crisi sia reale. Abbiamo da posizionarci come comunità religiose in un modo che permetta alla vita consacrata di poter portare avanti quello che finora abbiamo potuto conservare per il bene della Chiesa, per il bene della società e per il bene dei nostri ragazzi. È importante per noi salesiani riconoscerci consacrati, cioè riconoscerci chiamati da Dio non tanto per fare qualcosa, ma per essere, metterci dietro il Signore. A noi ha ripetuto: «Seguimi!», come ha detto a Pietro, ad Andrea, a Giovanni sul lago di Tiberiade, come ha ripetuto dopo la resurrezione a Pietro. Anche noi dobbiamo riscoprire ogni giorno l’identità della nostra vita consacrata per dedicarci sempre di più alla missione di servire il popolo santo di Dio che, per noi, chiaramente sono i giovani, i giovani poveri, abbandonati, pericolanti.
- E i laici?
Queste due espressioni di Chiesa devono integrarsi, devono essere uno, vivere la comunione. Se dovessi usare trovare un esempio userei dalla teologia sacramentaria: come nel matrimonio un uomo e una donna devono diventare una sola carne, analogamente, in una comunità educativa pastorale salesiani e laici devono creare alleanza, devono sposarsi.
- Il tuo servizio si apre in un anno particolare: quello del Giubileo della Speranza e del CG29. Una parola su questi eventi così importanti: cosa ti aspetti?
C’è da ringraziare il Signore perché poi questo mio servizio si apre in un momento bello della vita della Chiesa: il Giubileo, il Giubileo della speranza. E la speranza deve essere proprio l’anima, quest’anno, del nostro agire pastorale. Piace ricordare proprio quello che dice Papa Francesco nella bolla di indizione: dobbiamo riscoprire la speranza, annunciare la speranza e costruire la speranza. Questo dovrebbe essere non soltanto un bel programma spirituale e pastorale, ma diventare occasione di crescita per relazionarci con il mondo, con i giovani, tra noi confratelli, nella comunità educativa pastorale. Davvero la speranza non delude, per cui incamminiamoci e diventiamo pellegrini di speranza.